Pedibus saepe per urbem incedebat, summaque comitate adeuntes excipiebat: unde cum quidam libellum supplicem porrigens, prae metu et reverentia nunc manum proferret, nunc retraheret: "Putasne, inquit iocans Augustus, assem te elephanto dare?" Eum aliquando convenit veteranus miles, qui vocatus in ius periclitabatur, rogavitque ut sibi adesset. Statim Augustus unum e comitatu suo elegit advocatum, qui litigatorem commendaret. Tum veteranus exclamavit: "At non ego, te periclitante bello Actiaco, vicarium quaesivi, sed ipse pro te pugnavi"; simulque detexit cicatrices. Erubuit Augustus, atque ipse venit in advocationem. Cum post Actiacam victoriam Augustus Romam ingrederetur, occurrit ei inter gratulantes opifex quidam corvum tenens, quem instituerat haec dicere: "Ave, Caesar victor, imperator". Augustus avem officiosam miratus, eam viginti milibus nummorum emit. Socius opificis, ad quem nihil ex illa liberalitate pervenerat, affirmavit Augusto illum habere et alium corvum, quem afferri postulavit. Allatus corvus verba quae didicerat expressit: "Ave, Antoni victor, imperator." Nihil ea re exasperatus Augustus iussit tantummodo corvorum doctorem dividere acceptam mercedem cum contubernali. Salutatus similiter a psittaco, emi eum iussit. Exemplo incitatus sutor quidam, corvum instituit ad parem salutationem; sed, cum parum proficeret, saepe ad avem non respondentem dicebat: "Opera et impensa periit." Tandem corvus coepit proferre dictatam salutationem: qua audita dum transiret, Augustus respondit: "Satis domi talium salutatorum habeo." Tum corvus illa etiam verba adiecit, quibus dominum querentem audire solebat: "Opera et impensa periit"; ad quod Augustus risit, atque avem emi iussit quanti nullam adhuc emerat. Solebat quidam Graeculus descendenti e palatio Augusto honorificum aliquod epigramma porrigere. Id cum frustra saepe fecisset, et tamen rursum eumdem facturum Augustus videret, sua manu in charta breve exaravit graecum epigramma, et Graeculo venienti ad se obviam misit. Ille legendo laudare coepit, mirarique tam voce quam vultu, gestuque. Dein cum accessit ad sellam qua Augustus vehebatur, demissa in pauperem crumenam manu, paucos denarios protulit, quos principi daret; dixitque se plus daturum fuisse, si plus habuisset. Secuto omnium risu, Graeculum Augustus vocavit, eique satis grandem pecuniae summam numerari iussit. Augustus fere nulli se invitanti negabat. Exceptus igitur a quodam cena satis parca et paene quotidiana, hoc tantum insusurravit: "Non putabam me tibi esse tam familiarem." Cum aliquando apud Pollionem quemdam cenaret, fregit unus ex servis vas crystallinum: rapi illum protinus Pollio iussit, et ne vulgari morte periret, abiici muraenis, quas ingens piscina continebat. Evasit e manibus puer, et ad pedes Caesaris confugit, non recusans mori, sed rogans ne piscium esca fieret. Motus novitate crudelitatis Augustus, servi infelicis patrocinium suscepit: cum autem veniam a viro crudeli non impetraret, crystallina vasa ad se afferri iussit; omnia manu sua fregit; servum manumisit, piscinamque compleri praecepit.
Spesso girava a piedi per la città, e riceveva chi veniva con la massima cortesia: onde, quando uno, porgendo una banconota al boia, ora tendeva la mano, ora la ritirava, per timore e riverenza. : "Pensi," disse scherzosamente Augusto, "che un elefante ti massacrerà?" Una volta fu accolto da un soldato veterano, che correva il pericolo di essere convocato in tribunale, e gli chiese di assisterlo. Augusto scelse immediatamente uno dei suoi studi come avvocato per consigliare il litigante. Allora il veterano gridò: "Ma non sono stato io che, mettendoti in pericolo nella guerra di Attia, ho chiesto un sostituto, ma io stesso ho combattuto per te"; e allo stesso tempo ha scoperto le cicatrici. Augusto si vergognò e lui stesso venne in difesa. Quando Augusto entrò a Roma dopo la vittoria di Attia, un operaio lo incontrò tra i congratulatori, portando in mano un corvo, sul quale aveva fatto dire: "Salve, Cesare vincitore, imperatore". Augusto, ammirando il rispettoso uccello, lo acquistò per ventimila denari. Un compagno dell'operaio, al quale non era giunto nulla di quella liberalità, affermò che Augusto aveva lui e un altro corvo, e chiese che gli fossero portati. Avendo portato il corvo, espresse le parole che aveva imparato: "Salve, Antonio il vincitore, l'imperatore". Augusto, non esasperato da questo fatto, ordinò soltanto al maestro dei corvi di dividere la paga che aveva ricevuto con il compagno. Salutato anche lui dal pappagallo, gli ordinò di comprare.Un certo sarto, ispirato dall'esempio, allestì un corvo per salutare il fiammifero; ma quando faceva pochi progressi, spesso diceva all'uccello insensibile: "Lavoro e spese sono perduti". Alla fine il corvo cominciò a pronunciare il saluto dettato: udito il quale, mentre passava, Augusto rispose: "Ne ho abbastanza di tali saluti a casa". Allora il corvo aggiunse anche quelle parole, con le quali era solito sentire il maestro lamentarsi: "Il lavoro e la spesa sono perduti"; al che Augusto rise e ordinò che l'uccello fosse acquistato al prezzo al quale non ne aveva ancora comprato alcuno. Un greco, scendendo dal palazzo, soleva presentare ad Augusto qualche onorevole epigramma. Dopo aver fatto questo molte volte invano, e tuttavia Augusto vide che avrebbe fatto la stessa cosa, scrisse di sua mano un epigramma greco su un breve pezzo di carta e lo inviò al greco che veniva incontro lui. Mentre leggeva cominciò a lodarlo e si meravigliò della sua voce, del suo volto e dei suoi gesti. Giunto poi alla sella su cui cavalcava Augusto, mise la mano nella borsa del povero e ne trasse alcuni denari, che avrebbe dato al principe; e disse che avrebbe dato di più se avesse avuto di più. Tra le risate di tutti, Augusto il Greco si presentò e ordinò che gli fosse pagata una somma di denaro piuttosto elevata. Augusto rifiutava quasi chiunque lo invitasse.Tranne quindi che durante un certo pasto, piuttosto scarso e quasi quotidiano, si limitò a sussurrare questo: "Non pensavo di esserti così familiare". Quando un giorno stava cenando con un certo Pollione, uno dei suoi servi ruppe un vaso di cristallo: Pollione ordinò subito che gli fosse portato via, e affinché non perisse di morte comune, gettò via le murene, che erano contenute nel un enorme serbatoio. Il ragazzo sfuggì alle loro mani e si rifugiò ai piedi di Cesare, non rifiutandosi di morire, ma implorando di non diventare cibo per i pesci. Augusto, commosso dalla novità della crudeltà, si impegnò a proteggere lo sfortunato servitore: ma non potendo ottenere il perdono dall'uomo crudele, ordinò che gli fossero portati i vasi di cristallo; Ha rotto tutto con la mano; liberò il servo e ordinò che la cisterna fosse riempita.
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